Non ho chiesto a Goffredo Radicati se si riconosca
nella riflessione di Lea Vergine, ma sono fermamente convinto che in essa
consista molto del suo sforzo artistico. E usando il termine “sforzo”
anziché “progetto” o semplicemente “intento”, aggiungo alle
parole citate il senso, tutto personale e autobiografico, di un’arte che
non si propone altro obiettivo che quella di essere, di esistere in sé,
come necessità e in qualche modo urgenza della vita stessa. Una forza
motrice che si esplica nel farsi dell’arte, rifiutando a priori
qualsiasi schema. Coraggiosamente e spudoratamente quest’arte si impone
innanzi tutto a sé medesima, poi -ma dopo, molto dopo- e comunque senza
presunzioni ingenue attese o malcelate speranze si propone al mondo per
quel che è.
Utopia, appunto. Non ha un dove, né un quando. Non
credo nella propria utilità sociale o intellettuale. Esonera chiunque dal
giudizio. Goffredo Radicati non pretende di spiegarci la realtà o
qualcos’altro.
A cinquant’anni, dopo una vita passata nell’arte
e per l’arte, l’unica cosa che veramente conta è continuare a
dipingere, quasi come respirare. Essere.
Della solitudine e del silenzio questo artista sa
tutto, forse ne è anche un poco orgoglioso.
Con grande umorismo e capacità di ridere di sé e
del mondo, ha capito che l’arte non è il suo approdo, ma il suo
viaggio, la sua traversata fra le tempeste e bonacce della vita. Verso
dove? Chi potrebbe dirlo. E poi non importa. Non esiste altro luogo che
quello dell’arte e della poesia. Estrema tentazione romantica.
Alle spalle c’è tutto, comunque molto. L’antica
nobiltà famigliare, i paesaggi di intensa luce e memoria del padre
pittore, i suoi giovanili approcci con la natura morta.
Con ciò che restava del figurativo fra le intemperie
dell’informale.
C’è l’architettura, il design, la grafica… anni di lavoro e di
quotidianità faticosa.
Alle spalle un passato mai rinnegato, ma
assolutamente interiorizzato. Se ha valore, lo ha solo per ciò che
riverbera nelle tele dell’oggi, dove le figure si allungano e si
distorcono, danzano macabre e dannate, ma irresistibilmente vere nella
loro maschera grottesca che annuncia un luogo che non c’è, un pensiero
profondo e lieve a un tempo, compresso fra il sorriso e il ghigno.
L’utopia di Radicati ha in sé la forza di un nuovo
sapere e la leggerezza del ritmo innaturale delle cose.
Il colore smaltato e laccato, di tecnica antica
perseguita con rigore estremo nulla è casuale nell’arte è il vero
sovrano di questa stupenda parata di forme e luci d’antenati illustri,
da Paolo Uccello in su, fin al surrealismo dei grandi o, da un’utopia
all’altra, alla poesia shakespeariana, dove il sogno è realtà e la
realtà il sogno.